Numerosi bipedi di diversa forma, colore, dimensione, odore (credo), campo energetico, spessore e consistenza variabili scorrono davanti ai miei occhi tra le scritte “sala interna” sopra e “cuisine express” sotto, impresse sulla vetrina davanti a me. Le leggo al contrario, però, e infatti ci ho messo un po’ a interpretarle.
Le mie mani sarebbero curiose di palpare questi corpi che, un piede dopo l’altro, si trascinano in maniera più o meno dignitosa sotto gli ampi portici di piazza Vittorio in questa domenica di pioggia.
Sono tutti così diversi come mi appaiono da dietro questa vetrina del bar? Che densità ha la pancia rigonfia del poliziotto annoiato poggiato alla colonna? E la testa pelata del suo anche-lui-annoiato collega che sembra poggiarsi su di lui che si poggia a sua volta alla colonna?
E il parruccone indomito di questa graziosa donna d’Africa? E il fumo che sputacchia dalla bocca iper-truccata la ragazza appiccicata alla vetrina, che effetto farebbe alle mie mani? Forse loro non percepirebbero nulla, ma il mio naso sì. Il mio naso sembra quasi apprezzare questo odore acre mentre la mia bocca si riempie di un orzo troppo dolce, in tazza grande naturalmente, così dura di più.

Me ne sto seduta al tavolo, con i piedi bagnati, stordita da un’allegra musica latina, orribilmente remixata, e aspetto paziente. Respiro e osservo.
In primo piano l’orchidea sul tavolo riporta sull’etichetta, aggrappata allo stelo, “perfect imperfection”. È esattamente così che mi appare questo scorcio di una Roma multietnica: perfettamente imperfetto.
Vorrei uscire di corsa e accarezzare la pelliccia sintetica della bimba cinese che spinge il suo passeggino vuoto, palpare le tette accartocciate della vecchietta sdentata o quelle rifatte della bionda sui trampoli che avanza baldanzosa, incurante dell’ampio spazio che intercorre fra i suoi piedi e il marciapiede. Vorrei tastare il naso a patata dello spilungone stortignaccolo che cerca di darsi un tono camminando petto in su, e la gamba rigida (di legno?) del bassetto claudicante, probabilmente bengalese.
Invece sono ancora qui seduta, con i piedi un pochino meno bagnati, impaziente, imbarazzata, curiosa come una bimba che sta per scartare i regali di Natale, mentre aspetto il mio primo appuntamento Tinder.
Ricordo ancora il momento in cui un mio amico mi ha strappato lo smartphone dalle mani e mi ha installato questa spaventosa applicazione per single, Tinder. Eravamo seduti su un pattino triste e decadente sulla spiaggia di Ostia in un pomeriggio di ottobre. “Serve una foto in primo piano senza occhiali da sole, una a figura intera, perché è importante che vedano come sei fatta e altre foto in cui svolgi le tue attività preferite. Una breve descrizione di te in cui è vietato scrivere che cerchi un fidanzato, altrimenti nessuno cliccherà sul like.”, mi dice con fare da ingegnere, chiaro e conciso.

Ed è stata proprio l’enunciazione sul profilo del primo tinderino (T. n°1) che mi ha fregata “Out beyond ideas of wrongdoing and rightdoing, there is a field. I’ll meet you there.”, che in inglese suona così bene, tanto che di lui mi sono (abbastanza) innamorata, non subito però. È stata necessaria una lunga corrispondenza digitale e pochi agognati incontri. “Al di là dell’idea di ciò che è giusto e sbagliato, c’è un luogo. […]” è lì che lo avrei voluto incontrare. T. n°1 si è guadagnato il soprannome di “Svitol” quando, pur di non incontrarmi per più di un’ora di seguito (avevamo programmato di passare il fine settimana insieme), si è fatto venire la febbre. Il primo mese (di corrispondenza digitale e brevi incontri) diceva di essere affetto da un’orticaria invalidante e da un fastidiosissimo herpes genitale per cui non mi era consentito avvicinarmi troppo. La notte prima del fatidico incontro mi spedì, febbricitante, una lunga mail sintetizzabile in dieci parole: “Sei troppo per me, io mi sento inadeguato e bloccato”.
Armata del miglior Svitol-lubrificante-sbloccante-multiuso in commercio, ho tentato con tutta la mia ingegnosità e onestà, di disincagliare questo suo cuore arrugginito che lo portava a scopare a destra e a manca, tranne che con me. Non ha funzionato, sono stata mollata prima ancora di cominciare, prima ancora di consumare, anche perché non mi sono piegata alla sua pretesa di radere al suolo i riccetti della mia intimità. Per lui era scontato che laggiù dovesse essere tutto liscio per non inciampare, io però ho sempre preferito la corsa ad ostacoli e questo lui non l’ha mai capito.

Con i suoi completi Hugo Boss e le occhiaie da panda allergico persino al bambù, sosteneva che chi ama andare in montagna a fare trekking (io) fosse masochista, chi mangia solo cibi vegetali (io) fosse un disadattato, chi si veste “come la moglie del meccanico” (io secondo lui) non fosse abbastanza femminile. Nonostante ciò m’inviava spesso messaggi sonori in cui suonava teneramente il pianoforte per me.
Seduta nel caffè di piazza Vittorio capisco subito dalla sua andatura disinvolta che ci sarà sintonia, ho il presentimento (sbagliato come al solito) che sarà l’uomo giusto per me, e che potrò disinstallare Tinder stasera stessa.

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