[27 luglio – 13 agosto 2019]
Questo è il percorso dei dieci giorni trascorsi in questo paese a cui sono rimasta legata con molto affetto.
(Clicca sulle icone per informazioni sulle tappe e sui punti d’interesse.)
27 luglio 2019. 5°giorno.
Imotski – Cascate di Karavice
60 km. Dislivello positivo ~450 m.
Ed ecco che ha inizio l’avventura con ‘Maria la tortuga’. Proprio non mi entra in testa il suo nome, Eider, e per le sue espressioni primordiali che coinvolgono anche il collo, fronte e naso che si arricciano, il soprannome di tartaruga (tortuga in spagnolo) mi sembra calzarle a pennello. Sua madre ha provato a dirle di essere più composta con il viso e magari di bloccare la fronte con lo scotch, così come mio padre mi suggeriva di indossare cinture strette affinché il mio punto vita diventasse più, come dire… femminile. Piccoli insuccessi dei genitori.
Ci infiliamo dubbiose in un improbabile paesino chiamato Draga e pedaliamo su e giù, a destra e a sinistra, avanti e indietro, un po’ di qua e un po’ di là. I bimbi ci salutano e ci risalutano fino a quando preoccupati corrono a chiamare il papà. Dai suoi loquaci gesti capiamo che la strada che stavamo per imboccare è una salita che taglia le gambe e che cavolo ci facciamo lì, a parte farci tante risate tutti insieme? Ritorna con la biciclettina del figlio e ci accompagna verso la strada principale affrontando con impacciata disinvoltura il percorso.

Che buona la sandia – anguria in spagnolo -, quando fa così tanto caldo.
Effettivamente queste cascate sono grandiose, e, se non ci fossero tutti questi bar che io non ritraggo nella foto per far sembrare il posto più selvaggio possibile, sarebbero molto meglio.
Ci sono molte donne con il burka che non riesco mai a sorprendere nel momento in cui mangiano, vorrei capire come fanno con quel velo davanti alla bocca. In ogni modo ci sentiamo alquanto a disagio a starcene qui in bikini, quasi fossimo colpevoli di qualcosa che ignoriamo.
Cerchiamo un posticino con vista dove piantare la tenda. Di notte quando non c’è nessuno e le luci sono accese sembra di stare a Disneyland o su un set cinematografico. Tutto appare finto e impalpabile come se non facesse parte della mia realtà.
28 luglio 2019. 6° giorno.
Kravice – Medjugorje – Mostar – Potoci
56 km. Dislivello positivo ~600 m.
Ci svegliamo inumidite dalla pioggia. Io abbastanza zuppa direi. Presa da un eccesso di ottimismo e sottovalutando i segnali del cielo, ho montato la tenda senza troppa attenzione. Il telo esterno ed interno si toccano e l’acqua gronda sul mio sacco a pelo.
Finalmente posso utilizzare il filtro per l’acqua, la mia compagna mi assicura che funziona benissimo e che mi posso fidare. Lo usano tutti i viaggiatori anche in Asia. D’altronde la pubblicità recita “grazie alla tecnologia utilizzata per la dialisi medica filtra il 99,99999% di batteri e 99,9999% di protozoi”. Dunque resta solo il buono . Proviamo!

Per far piacere alle nostre mamme cattoliche, ma anche per viva curiosità e sperando segretamente in un miracolo, non si sa mai, decidiamo di fare una capatina a Medjugorje. Il luogo delle molteplici e puntuali apparizioni della Vergine, non ancora riconosciuto dal Vaticano. La strada per arrivarci è brutta e triste. Prima di questi miracoli era un paesino abbastanza povero e banale che ha visto moltiplicare esponenzialmente i suoi introiti grazie alla Madonna. Ci riferiscono che però non è più tanto in voga e che i pellegrinaggi stanno diminuendo.
Nella cattedrale si respira un’aria solenne, si percepisce l’intenzione profonda di essere lì, si sente il bisogno dei credenti di apparire umili e allo stesso tempo abbastanza speciali da poter riscuotere un favore, anche piccolo, piccolissimo. Perché se lo meritano. Perché ce lo meritiamo tutti e tutte.
Noi ci siamo guadagnate l’acqua, tanta tanta acqua che viene giù dal cielo ed una bella discesa quasi fino a Mostar.
Di Golf Volkswagen vecchio stile che ci asfissiano con il loro fumo nero, né è piena la Bosnia intera.
Con i pesci nelle scarpe e la pioggia nelle ossa spingo forte sui pedali per riscaldarmi un po’ ed anticipare i fulmini. Non ascolto le paure della mente e mi godo questo straordinario paesaggio collinare senza nemmeno un riparo. Quando mi capiterà di nuovo di vivere un’esperienza così, rimango vigile e presente.
Le auto che ci sorpassano ci inondano un bel po’, tanto che la prima volta penso di affogare, ma la seconda mi coglie preparata e trattengo il fiato. Che peccato non avere foto di queste onde. Però il lago c’è. Eccolo.
La pioggia cessa appena arrivate a Mostar, ma il warmshower che ci ospita, quello che abbiamo conosciuto in Croazia, vive a 11 km dalla città. Ancora un ultimo sforzo per un’orribile strada dal traffico nervoso ed ecco che approdiamo con grandi aspettative a Zemljani, Vegan-Raw-Permacolture-Farm.
Un posto abbandonato a se stesso, sul bordo della rumorosa strada principale, pieno di cose rotte, gatti affamati ed un ciclista fantasma. E poi ¿donde están los garbanzos? Dove stanno tutti i ceci che Bambi, il padrone di casa, dice di utilizzare per il suo fantomatico hummus a quattro gusti? Troviamo solo scatolette di cibo per gatto vuote e sparse in giro.
Bambi lavora due giorni a settimana preparando hummus con le sue manine e vendendolo in città.
Non sappiamo neanche dove sia il bagno e se ce sia uno.
29 luglio 2019. 7° giorno.
Visita a Mostar, senza bici.
Andata in autostop perché il bus sarebbe passato due ore dopo.
Ritorno in bus che ha fatto un giro enorme e non lo sapevamo, e poi ci ha lasciato a quasi un’ora di cammino, menomale che c’è il marciapiede che sta facendo buio e le auto sfrecciano.
Free Walking Tour. Una scoperta fatta in Albania la scorsa estate. Si gira la città a piedi con una guida locale che non chiede un prezzo fisso, bensì un’ offerta libera.
La nostra guida è una brillante ragazza argentina trasferitasi a Mostar tre anni fa. Per la gente, ci spiega. Per la loro incontrollabile accoglienza, che bisogna stare attenti a dire se si ha necessità, ad esempio, di una stufetta per il freddo, perché loro letteralmente staccano la presa mentre la stanno usando e te la regalano.
Scopro di essere in Erzegovina e non in Bosnia, che qui i cattivi durante la guerra dei Balcani erano principalmente croati, che è scomodissimo camminare con le infradito – perché le scarpe sono ancora bagnate, e mi vengono pure due dolorosissime vesciche -, che alcuni si buttano giù dal ponte, si tuffano con due tecniche diverse – e ci sono anche corsi dedicati a questa arte che a me spaventa alquanto – e che la Bosnia Erzegovina ha il sistema politico più complicato al mondo. Ma per capire come funziona bisogna andare su YouTube e cercare ‘Bosnia Herzegovina has the most complicated political system in the world’ ed io non l’ho ancora fatto. Provvederó.
Questo bellissimo ponte ottomano del XVI secolo è stato brutalmente abbattuto nel 1993. Dopo due giorni di bombardamenti da parte delle forze croato-bosniache, le sue antiche pietre crollarono nel fiume. Il ponte fungeva da connessione fra due parti della città abitate da musulmani ed era solamente pedonale, per cui strategicamente la sua distruzione fu di poca utilità. Però l’impatto psicologico sulla popolazione musulmana di Mostar fu enorme.
I segni della guerra si vedono ancora, si sentono, ma gli abitanti di Mostar non sembrano avere tanta voglia di parlarne. L’uomo che ci ha accompagnato in città ha perso circa quaranta familiari durante la guerra, però la vita va avanti, dobbiamo voltare pagina, ci dice con un sorriso. O perlomeno così abbiamo capito.
Perché i buchi dei mortai sulle facciate dei palazzi, gli edifici ridotti a scheletri stecchiti, la sgarrupatezza delle cose e la povertà in generale esercitino un fascino così grande su di noi, non lo riusciamo a capire.
La città è stata per gran parte ricostruita, in molti casi però non si riesce a risalire ai proprietari degli edifici ed è quindi difficile procedere alla ristrutturazione. Organizzano anche un festival di street art nel tentativo di riqualificare questi mostri.
Cimitero monumentale dei partigiani di Mostar, dove sono seppelliti combattenti jugoslavi antifascisti della Seconda guerra mondiale.

Museo del genocidio. Molto difficile da sostenere, ma necessario da visitare. Uscendo si cerca la bellezza, la leggerezza affinché le dure immagini che contiene non continuino a graffiarci dentro a lungo.
30 luglio 2019. 8° giorno.
Mostar, Blagaj, Rilja.
72 km. Dislivello positivo ~700 m.
Dar retta al navigatore senza verificare non è sempre la strategia giusta. Lui si arroga il diritto di mandarti per stradine laterali strette, sterrate e magari pure in salita, visto che sei in bici e vuoi evitare il traffico. Siamo dirette al parco nazionale Sutjeska, ci vogliono due giorni per arrivarci.
Di strada c’è Blagaj, il famoso monastero derviscio, costruito nel 1520 sulle sponde del fiume Buna. Come non passarci.
Dopo una lunga concertazione decidiamo di seguire il percorso per le automobili, ci sembra più scorrevole, se c’è troppo traffico torniamo indietro e ci inerpichiamo per paesini sconsolati.
Fa caldo, sappiamo che dobbiamo affrontare una lunga salita. Tanto dislivello tutto insieme non l’ho mai fatto. Anche Eider, ciclista provetta con numerose vette conquistate alle spalle, sembra preoccupata. Tanto da comprarsi una Coca Cola. Lei, convinta antiglobal basca, mi confessa che in questi casi, e solo in questi casi, perché in situazioni normali non darebbe mai e poi mai i suoi soldi a questa multinazionale emblema del capitalismo mondiale, ha bisogno della spinta che solo la Coca Cola può darle. Io mi accontento di un bel tè freddo ai frutti di bosco, banana e olive.
Benvenuti nella repubblica di Srpska. Cinque consonanti di fila. Adoro pronunciare S R P S K A. È la parte serba della Bosnia Erzegovina, anche loro sono stati i cattivi durante la guerra degli anni ’90, soprattutto verso i bosniacchi, ossia i musulmani della Bosnia.
Accoglienza fantastica. Non servono grandi discorsi, bastano i gesti e quelle due parole due che abbiamo imparato.
Evviva, salita finita, ce l’abbiamo fatta!
Il sole sta tramontando, si pedala con gusto a quest’ora. Tutto diventa più romantico. Non ci sono campeggi né stanze in affitto, ci appropinquiamo quindi a cercare un prato su cui piantare la tenda, sarebbe perfetto vicino al fiume, che è totalmente secco, pazienza. Niente male davanti a questa casa abbandonata. È chiaro che sia abbandonata, la macchina è senza targa, i muri vecchi, il grande prato antistante completamente incolto.
E invece i vecchietti, che ci stavano spiando dalla finestra, escono fuori e continuano a spiarci in silenzio. Ci andiamo quindi a presentare ma loro scappano dentro. Giochiamo un po’ a nascondino poi finalmente riusciamo ad incontrarli ed otteniamo la loro benedizione.
Anche stasera per cena zuppa liofilizzata con glutammato monosodico e piselli in scatola. Altri legumi in scatola praticamente non esistono, fra l’altro i piselli non sono neanche legumi. Sogno un bel pezzo di tofu affumicato.

31 luglio 2019. 9° giorno.
Rilja, Gacko, Tjentiste (parco nazionale di Sutjeska)
75 km. Dislivello positivo ~750 m.
Dopo una specie di doccia alla fonte e un inizio di percorso rurale molto verde e accogliente ecco che appare lei. La centrale elettrica di Gacko e chi se l’aspettava! Penso che purtroppo da qualche parte dovranno pur essere queste centrali, però un po’ di rispetto per l’ambiente e per la bellezza dovrebbero guidare chi progetta questi obbrobri.
Menomale che c’è lui. Il supermercato amico. Afferro con avidità il latte di soia al cioccolato, il tofu, il paté vegetale, le gallette di mais mai trovati da nessun’altra parte e mi sento di nuovo in pace con il mondo. Il perché di questi prodotti qui lo ignoro profondamente.
Come un dono inatteso appare il lago artificiale di Ulinje. Di un blu invitante e una calma rinfrescante. La mia collega però va troppo veloce per accorgersene. Ripongo il bikini che con l’immaginazione avevo indossato e proseguo. La sensazione di voler stare un po’ sola ed avere maggiore autonomia si fa momentaneamente spazio dentro di me.
Che poi, in fin dei conti va benissimo continuare il percorso ed avere più tempo al parco naturale dove siamo dirette.
Pronte per il tunnel, lungo e buio. Ma con una specie di marciapiede su cui pedalare in equilibrio. A me piacciono i tunnel, a lei no. A me fanno sentire un’esploratrice a lei no. Io, che di solito sono in coda, qui corro concentrata. Lei va lenta, tentenna. Ne usciamo indenni.
Omladinski Kamp a Tjentište.
Camping della gioventù risalente al periodo di Tito. Relativamente abbandonato, si nota il tentativo di rimetterlo in sesto.
Questa grande pozza d’acqua nella foto, dapprima non si intuisce lo so, è una poco invitante piscina socialista con tanto di scalette rosse per accedervi. Come mi piacerebbe sdraiarmi qui un giorno intero, per scrivere, leggere ed osservare la gente. Mi sembra di vedere questi giovani socialisti che si fanno il bagno negli anni di Tito, quando il maresciallo aveva già litigato con la Russia.
1° agosto 2019. 10° giorno.
Trekking sul monte Maglić 2388 mslm.
13 km a piedi. Dislivello positivo ~1114m.
Al campeggio conosciamo due simpatiche ragazze belga che ci danno un passaggio fino a Prijevor. È da lì che inizia l’ascesa del monte più alto della Bosnia che decidiamo di intraprendere insieme, sarà lunga, ripida e parzialmente nella nebbia, deduciamo guardando in su. Ed inoltre il meteo preannunciava brutto tempo. Ma non tempesta e questo è quello che conta.
Una piccola mandria di cinque giovani olandesi dalle scarpe lisce, li voglio proprio vedere su quelle rocce viscide con quelle suole, parte prima di noi. Li troviamo poco dopo sbragati sulla pietraia all’inizio della salita, incerti sul come proseguire e già stanchi, anche se non lo danno a vedere.
La salita è dura ma divertente come un parco avventura, in cui non sono mai stata ma mi immagino così. Ci sono molti passaggi esposti e ci si serve delle corde attaccate alla roccia per non rischiare di scivolare. Marie, la psicologa belga, con le sue vertigini tentenna ma non molla. Bisogna affrontare le proprie paure, mi dice come per convincere se stessa. Conquista la cima anche lei, ma non crede che lo farà di nuovo. Sapere che è in grado di farlo è, però, assai importante.
La vista mozzafiato la possiamo solamente immaginare.
Arrivano anche gli olandesi. Ci stavamo preoccupando, ma la foto con loro non ce la facciamo.
Comincia la discesa, quasi più difficile della salita, menomale che mi sono presa due bastoni che mi aiutano a scaricare il peso dalle ginocchia e mi danno equilibrio. Però che male i quadricipiti, in discesa più che in salita, chissà se domani riesco a camminare.
Mentre gli olandesi scivolano uno dopo l’altro, la professoressa di matematica belga indossa il tutore per il ginocchio lesionato sugli sci, Eider è già molto più in basso che non la vedo più…
Ecco il cuore, in principio non si capisce bene, ma poi quando si concede in tutta la sua bellezza ci sentiamo appagate e fiduciose che questo sia un messaggio per noi. Lasciamoci ispirare dal lago di Trnovačko ed apriamo il nostro cuore, mostriamolo senza timore ma con cura. E che alla fine il fidanzato lo troveremo tutte.
Intorno al lago ci si può accampare e c’è un piccolo rifugio gestito da un rude signore di una certa età. Un euro a persona per poter passare qui, il parco naturale Piva è in Montenegro. Ah.
2/3 agosto 2019. 11°/12° giorno.
Sarajevo senza bici.
Cerchiamo di impacchettare velocemente le nostre cose, inumidite dalla notte, per partire lasciando le bici al campeggio, ma sembra che questa mattina tutti vogliano parlare con noi. Non capiscono che fra poco abbiamo l’autobus per Sarajevo e ci dobbiamo concentrare?
Ed è l’ unico e il solo fino alla sera, che però perdiamo, pur arrivando con largo anticipo perché la fermata è a richiesta e noi ce ne stavamo beatamente sedute a cercare in internet, io un ristorante vegano in città ed Eider il nuovo volo di ritorno. Su quello prenotato per il 22 agosto da Atene non riuscirà a salirci, visto che i piani sono cambiati.
Quindi, quale migliore occasione per riposarsi nella piscina socialista e partire la sera? No. Nessun riposo. Eider non ce la fa a fermarsi neanche mezza giornata. Facciamo autostop. Che non si dica che non scendo a compromessi.
Qui non si può entrare con il cane al guinzaglio, la sigaretta in bocca, il cellulare in una mano e la pistola nell’altra.
E non solo qui, di divieti come questo se ne vedono parecchi in giro.

Mi piace sedermi nei parchi pubblici ed osservare la gente, mi fa sentire meno estranea e più partecipe della vita quotidiana dei locali.
In qualche modo mi sento affezionata alla scritte sui muri e ai graffiti quale segno di movimento alternativo di una città. Mi sembra di capire un pochino meglio cosa hanno bisogno di esprimere con caratteri cubitali gli abitanti di un determinato luogo e contro chi hanno bisogno di affermare la propria presenza.
Scegliamo un Free Walking Tour in castigliano, perché, dal modo accurato in cui Ervin, la guida, risponde alle mail, ci sembra il più valido e ci andiamo con Ana, un’adorabile ragazza spagnola conosciuta all’ostello e che presto andrà a lavorare con i rifugiati siriani al confine della Bosnia con la Croazia.
Appena Ervin arriva all’appuntamento, così cicciottello e sudaticcio penso con un certo sollievo che con lui, menomale, non si camminerà molto. Le mie gambe dopo il trekking di ieri le sento di legno, non rispondono bene ai miei comandi e mi sento una foca.
Inizia a parlare con voce monotona senza fermarsi neanche per respirare. Capisco poco di quello che dice, ma mi colpisce ed imbarazza il suo tic al sopracciglio destro tanto che sento il bisogno di toccarmi il mio di sopracciglio per capire se, per caso, non abbia iniziato a muoversi anche lui.
E quel gesto ripetuto e compulsivo di strofinarsi il cappello sulla testa con degli avidi cerchi mi imbarazza ancora di più, tanto che penso che sia uno scherzo e la guida debba ancora arrivare. Gli altri cinque spagnoli che sono con noi lo guardano attoniti ma partecipi.
Superati i primi disagi si rivela una guida molto competente, una specie di nerd-pozzo di scienza che però ha sempre la battuta pronta. Dice che a Sarajevo sono sopravvissuti alla guerra grazie al loro senso dell’umorismo. Umorismo nero, ma pur sempre di umorismo di tratta.
Ci racconta la barzelletta del ragazzo con la faccia bruciata che si presenta in infermeria durante la guerra e che l’infermiera lascia lì senza cure, contenta che sia tornato il gas e che si possa fare finalmente un caffè.
Parla a cadenza regolare, senza espressione, un po’ come gli zingari che chiedono l’elemosina sulla metro di Roma. Una sorta di cantilena che faccio molta fatica a seguire.
Nello stesso modo ci racconta della sua storia, che sono stati profughi in Croazia perché avevano dei conoscenti lì, ma poi non potevano più stare in quella casa e si sono rifugiati in Spagna. Ecco perché parla castigliano. È stata molto dura dice, ma la sua voce è completamente distaccata dalle sue emozioni.
Quando ci svela che una delle sue ex ragazze era vegana, tiro un sospiro di sollievo. Non perché conosca il veganismo, ma perché sono contenta che almeno una fidanzata l’abbia avuta.
Ci si imbatte in numerose macchie come questa per le strade di Sarajevo. Stanno a simboleggiare i punti più importanti in cui sono cadute le granate. Questa esplose vicino alla panetteria mentre alcuni civili stavano facendo la fila per il pane durante la guerra.

Con Ervin il tour non poteva non essere anche gastronomico e ci ritroviamo seduti ad assaggiare dei baklava fatti in casa e a sorseggiare un dolcissimo – anche troppo direi – e particolare succo di petali di rosa.
I baklava sono dolci dolcissimi a base di miele o zucchero, pasta sfoglia e frutta secca, originari della Turchia, ma diffusi anche nelle regioni balcaniche. Due cucchiaini fanno pure piacere, di più è abbastanza stucchevole.

La guida ci dice che tutte le donne con il velo che vediamo in giro sono turiste provenienti dai paesi arabi, pochissime bosniacche indossano il velo e solo per coprire il capo. Mai il volto.
Le Obike a Sarajevo come a Roma e svariate altre città italiane. Idea intelligente quella di avere delle bici in affitto a disposizione. Costo contenuto, abbondante disponibilità di biciclette che possono essere lasciate un po’ ovunque senza rastrelliere obbligate. Chi è abituato a pedalare però, trova queste bici senza marce scomode e pesanti. Da Roma sono sparite.Torturate e gettate in qualche fosso, spesso sulle sponde del Tevere. Queste nella foto fra l’altro sono legate con una catena, il che significa che qualcuno se n’è appropriato indebitamente. Il loro sistema di bloccaggio originale è annesso alla ruota posteriore.
A quarant’anni all’ostello, con gente che russa, fa caciara tutta la notte, ha i piedi puzzolenti e poi ci sono i deodoranti d’ambiente attaccati alla parete che – pssshh – a cadenza alternata marcano il ritmo del sonno tranquillo di alcuni e del russare di altri. Perché, a quarant’anni, mi ritrovo in una stanza asfissiante piena zeppa di letti a castello che sanno di sapone per i panni scrauso? Eppure questo senso del risparmio e dell’avventura gonfiato dalla presenza di Eider, mi portano a condividere la notte con viaggiatori e viaggiatrici che vanno al bagno dell’ostello scalzi. Non so se provare disgusto o ammirazione per cotanto coraggio.
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Visita obbligatoria alla “GALERIJA 11.07.95”, chiamata così perché fu proprio l’11 luglio 1995 che avvenne il più cruento genocidio in Europa, dopo la seconda guerra mondiale, in una cittadina ai confini con la Serbia.

L’operazione militare “Krivaja 95” guidata dal generale Ratko Mladić, al comando delle truppe della Rebublika Srpska – serbi di Bosnia, ha fatto fuori 8.372 bosniacchi – musulmani di Bosnia che vivevano a Srebrenica o che vi si erano rifugiati.
La trionfante dichiarazione pubblica del generale fu che finalmente erano riusciti a vendicarsi dell’invasione turca. Avvenuta svariati secoli prima.
La responsabilità fu anche delle truppe olandesi delle Nazioni Unite, che rimasero a guardare mentre questa cittadina, smilitarizzata e sotto protezione da due anni, veniva invasa.
Il muro delle persone scomparse, di cui non si sono ancora ritrovati i corpi. Tutti uomini e ragazzi. Due donne.
Orribili e vergognosi graffiti trovati nel campo base olandese di Potocari. Questa sottospecie di esseri umani che aveva il compito di proteggere le persone che qui scherniscono per iscritto. Mi fa senso anche tradurre queste frasi.

Mappa delle fosse comuni. Numerosi corpi vennero spostati verso fosse secondarie e a volte terziarie con il risultato che per l’ identificazione dei corpi ci sono voluti anni e minuziosi esami del DNA.

Durante l’assedio di Sarajevo, durato dal ’92 al ’96 – dunque il più lungo assedio della storia della fine del XX secolo – i suoi abitanti cercavano di sopravvivere al meglio continuando le loro attività ludiche.
Bellissimo ed interessantissimo video-documentario “Miss Sarajevo” ad opera di Trio Sarajevo, da cui è tratta questa immagine.
Il senso dell’umorismo di queste persone mi è rimasto impresso. Così come la loro disperazione trasformata in voglia di vivere.
E poi ci sono state delle violenze assurde, senza senso.
Ancora oggi rabbrividisco alla storia del neonato messo nel forno davanti alla mamma. E poi il forno acceso. I soldati hanno fatto questo. Sì, ne sono stati capaci. Non mi ricordo chi della famiglia lo ha raccontato nel documentario. È duro scrivere queste cose.

“Trio Sarajevo” è un gruppo di artisti laureati presso l’ Accademia delle Belli Arti che ha scelto di rimanere in città durante la guerra nonostante la possibilità di emigrare all’estero per lavoro.
Uno dei loro progetti più importanti fu la rivisitazione su cartolina di famose immagini e manifesti per denunciare al mondo quel che stava succedendo. Il retro delle cartoline recita: “Realizzato in tempo di guerra. Niente carta, niente inchiostro, niente elettricità, niente acqua. Solo buona volontà.”
L’uscita della galleria, finalmente. Ci servono aria, gioia ed arte.
Il museo di arte contemporanea potrebbe far al caso nostro. Forse un po’ troppo contemporaneo per noi, tanto da sembrare una specie di magazzino.
Per alleggerirci ancora un po’ andiamo al museo dei bambini, quello che dà speranza, ci assicura la tipa delle informazioni turistiche.
Qui troviamo tanti oggetti appartenenti a bambini durante la guerra che ora, da adulti, li hanno donati al museo corredati dalla loro storia.
Anche la parte più vera di Sarajevo, al di fuori del centro storico, che comunque è frequentato anche da tanti autoctoni – ci dice la guida – mi piace assai. L’architettura austroungarica, ottomana, brutalista, socialista adornata dai segni della guerra fa un mishmash impagabile insieme alla vitalità dei cittadini e delle cittadine.
4 agosto 2019. 13° giorno.
Sarajevo – Tjentiste in bus.
Tjentiste – Goražde in bici.
67 km. Dislivello positivo ~ 600 m.
Eccoci di ritorno verso le nostre bici rimaste al sicuro in una stanza ammuffita del campeggio di Tjentiste.
Prima di saltare sul bus tappa obbligata alla toilette. Anzi no, perché madame pipì mi vuole far pagare 1 marco, ma lì c’è scritto 0,50. È il principio che conta. M’incazzo in italiano e lei in bosniaco tanto che interviene un paciere albanese che paga la mia quota.

Nel bus succedono cose imprevedibili e poetiche.

Un ultimo “Sola ice tea” ed eccoci pronte per la prossima prossima ed eccitante tappa: Višegrad con il suo ponte sulla Drina.
Grande scritta di cemento su erba che inneggia a Tito. Molti bosniaci ricordano con nostalgia i bei vecchi tempi del socialismo.
Alla ricerca di un posto per la notte. Trovato un campo vicino al fiume proprio qui dietro. Nascoste ma non troppo, spieghiamo con gesti alla famigliola che passa che siamo venute in bici “bicikl” – la trovo bella questa parola – da Spalato e siamo dirette a Višegrad. Quasi non abbiano mai visto delle tende da campeggio, ci fanno segno: “Qui? Dormire? Vi morirete di freddo.”
Invece ci regaliamo una ricca dormita. Sarà stata la solita zuppa liofilizzata ad averci riscaldate.
5 agosto 2019. 15° giorno.
Goražde – Višegrad – Variste.
58 km. Dislivello positivo ~ 950 m.
Proprio un bel percorso. Per evitare i numerosi tunnel, passiamo per una stradina laterale tanto sgarrupata quanto affascinante.
Tanto i tunnel ci sono lo stesso, ci dice l’uomo a cui non abbiamo chiesto niente ma vuole sfoggiare il suo inglese. “Che la prendere a fare questa inutile stradina?”
La Drina, con grande dignità e meraviglia, ci accompagna fino a Visegrad.
Finalmente lui, il ponte, quello vero, quello di Ivo Andrić che ci appare senza preavviso tanto che non lo riconosco subito.
Si sta bene a Visegrad, c’è qualche turista ma principalmente gente del posto. Si respira la calma, forse perché c’è lui. Posato, elegante, forte, generoso.
Sto scoprendo la moda della lapide/fontana, mi fa un po’ impressione riempirci la borraccia, però sempre di acqua si tratta.

Andrićgrad, minirealtà urbana a pianta triangolare fatta costruire, fra tante polemiche, dal regista Emir Kusturica. Le polemiche nascono dal fatto che questa città in miniatura sia stata ideata per coltivare e celebrare l’identità nazionale serba.
Ivo Andrić, ti prometto che il tuo libro lo finirò di leggere, sono a metà, mi piace molto, solo che ho avuto tanto da fare in questo periodo.

Un piccolo sforzo finale per arrivare al River Camp ai confini con la Serbia.

Sono le 18, Eider vorrebbe proseguire e passare la frontiera, perché è presto, che facciamo qui?
Niente, ci riposiamo un po’, si sta bene. Non si convince del tutto fino a quando scopre di aver bucato una ruota. Quindi sì, dai fermiamoci. Deo gratias! Comunque non mi sarei mossa, tanto più che la strada prosegue tutta in salita.
Ci mettiamo poco a mettere ordine e pace fra di noi. Me ne rallegro.
Il bagno. Unico posto in cui, indossando tutti i vestiti pesanti che posseggo, posso starmene tranquillamente al calduccio a scrivere le mail.

Fine della Bosnia Erzegovina.
Ci vediamo in Serbia!
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